discorso insediamento Presidente 2014-15 R.C.Bisceglie Giovanni CASSANELLI
pubblicata il 01/07/2014
PubblicazioniPassaggio del MARTELLETTO – Discorso del Presidente entrante Giovanni CASSANELLI
Carissimi amici,
Ho conosciuto lo spirito rotariano e l’abnegazione al servizio che deve caratterizzare ciascun rotariano ben prima di conoscere il Rotary e di sapere che cosa esso fosse. Era un pomeriggio di giugno del lontano 1996 quando mi giunse una telefonata: proveniva dal M° Domenico Di Leo, pianista e mio caro amico, il quale mi invitava ad assistere, presso il chiostro del Monastero di Santa Croce, alla cerimonia di insediamento della nuova Presidentessa della Pro Loco. Quel pomeriggio ho fatto un incontro che sarebbe poi risultato determinante nel prosieguo della mia vita in considerazione degli stimoli culturali ricevuti, della possibilità di vivere intensamente la fitta rete di relazioni sociali che insiste su questa nostra bellissima città, ma soprattutto in virtù dell’amicizia e delle amicizie che da quel momento in poi avrei sviluppato e che avrebbero arricchito la mia vita in un modo che non è retorico definire, nel senso letterale di qualcosa che è al di fuori dell’ordinario, “straordinario”: quella nuova Presidentessa della Pro Loco di Bisceglie era Marcella Di Gregorio. Da quel momento in poi sono entrato in un vortice di positività e di entusiasmo che per me, giovane diplomato presso il Conservatorio di Bari ma ancora studente presso la Facoltà di Lettere e Filosofia, rappresentò fin da subito una palestra di vita di estrema importanza. Marcella ebbe la brillante idea di organizzare un corso di guida turistica: quale migliore strumento per rendere la gioventù del luogo consapevole dello straordinario patrimonio artistico e paesaggistico che la nostra città, la nostra regione, il nostro ricchissimo Sud hanno da offrire, e per fornire un’occasione di lavoro ai tanti giovani dalle mille risorse che nella nostra terra vivono e studiano e che in essa intendono investire e operare? E’ stato in quel contesto che ho avuto modo di incontrare e conoscere altre persone, impregnate di spirito rotariano, che operavano disinteressatamente e mettevano liberamente la propria professionalità al servizio della società: quando ho cominciato ad ascoltare le lezioni di Margherita Pasquale, ho capito di avere di fronte una donna appassionatissima del proprio lavoro, ma che aveva, oltre a questo, una grande dote, quella di voler condividere la sua passione con il resto del mondo, con uno spirito di servizio di cui probabilmente ella stessa non era neanche consapevole, tanto le era ed è connaturato, tanto in lei era ed è fatto assolutamente normale e da sempre acquisito. E’ stato in quel frangente che ho fatto la conoscenza di Cecilia Martucci, la quale, giovane tra i giovani, seguiva insieme a noi le lezioni della sua allieva Margherita e di tutti gli altri professionisti che liberamente, su richiesta di Marcella, avevano deciso di mettere le proprie mille professionalità al nostro servizio, una Cecilia che avrei scoperto più appassionata di mille ragazzi messi insieme, e quanto mai disposta a mettersi al servizio di tutti coloro che ne avessero avuto bisogno con la sua cultura, la sua passione, la sua grande esperienza di Maestro di intere generazioni. Ancora in quel contesto, facevo la conoscenza dell’infaticabile Nina Di Modugno, e scoprivo quanto fosse prezioso l’apporto del volontariato in un campo, quello delle malattie con cui mai nessuno di noi vorrebbe mai avere a che fare, in cui il coniugare energia fattiva e capacità di donare un sorriso (caratteristiche tipiche della cara Nina) diventano calore e rispetto per la vita di tutti. Un giorno di ottobre, quando ancora il corso di guida turistica che frequentavo era ancora ben al di qua del suo termine, quella Marcella capace di incoraggiare i giovani e di fornire loro i più preziosi stimoli mi chiese di guidare nel centro storico un organista francese giunto nella nostra città per tenervi un concerto, chiamatovi da una professoressa di francese che insegnava presso l’Istituto Tecnico Commerciale “Dell’Olio”, abile didatta ma anche donna molto attiva nel campo associativo: fu così che conobbi l’indimenticata Pasqua Di Pierro, la cui totale abnegazione al servizio dell’Università delle Tre Età, associazione che di lì a poco ella avrebbe presieduto per lunghi anni, ha rappresentato per me un modello di dedizione alla causa della crescita del territorio che rimane ancora inimitabile. In quegli anni la sede della Pro Loco, sita in Via Aldo Moro, era un vero e proprio porto di mare; la caparbietà, l’energia, l’attivismo di Marcella, rappresentavano un centro di attrazione che calamitava tutte le energie positive della città. E’ stato da quel momento in poi che io ho visto la mia città cominciare a crescere, a manifestare una sempre più intensa domanda di cultura, e ho visto crescere nei miei concittadini, lentamente ma progressivamente, una consapevolezza nuova del proprio territorio e delle sue notevoli ricchezze di carattere storico, artistico e paesaggistico.
Nel corso degli anni, avevo già avuto modo di interagire con altre figure, che poi avrei ritrovato nel Rotary, le quali mi avevano colpito da un lato per la dedizione alla professione, dall’altro per la disponibilità al servizio che si manifestava, ad esempio, attraverso una costante ricerca di attività culturali da offrire al territorio. Conosco Bruno Logoluso da quando ero bambino: la brevissima distanza di due piani che separa il suo studio dall’abitazione dei miei genitori in cui sono cresciuto mi ha permesso di fare ben presto la sua conoscenza e di interagire fin da subito con lui non per questioni di carattere condominiale, bensì per la comune passione nutrita nei confronti della cultura, in primis per la musica. Quando l’avvocato Logoluso sentiva, attraverso i due piani che ci separavano, il giovane allievo che studiava pianoforte per molte ore al giorno, lungi dall’esserne infastidito, si appassionava sempre di più alle sue vicende, ne seguiva il percorso formativo, fino ad offrirgli la possibilità di esprimersi, solo quattro giorni dopo il conseguimento del Diploma in Pianoforte presso il Conservatorio “Piccinni” di Bari, in un concerto tenutosi presso il Circolo Unione, di cui Bruno era uno dei Dirigenti, per un obiettivo che era sempre quello: offrire al territorio un’opportunità di crescita, mettersi al servizio della società per contribuire a rendere questa migliore. Da quel momento in poi, numerose sono state le collaborazioni avviate con Bruno, realizzate sempre nell’ottica dello sviluppo di una sensibilità culturale del territorio in vista del raggiungimento del benessere comune.
Un giorno di ottobre del 2000, ero appena laureato, ricevetti una telefonata da una scuola che mi chiedeva se fossi disponibile ad accettare un incarico di supplenza in Storia dell’Arte: confesso che in quel momento, preso dalle ricerche musicologiche che avrei continuato a sviluppare negli anni seguenti, non avevo messo in conto l’idea che potessi insegnare, ma l’arrivo di una proposta di lavoro rappresentava, ne ero consapevole, una fortuna alla quale mai nessuna persona di buon senso avrebbe potuto chiudere la porta in faccia: accettai. Fu così che conobbi Pinuccio D’Andrea, il primo Preside della mia carriera di docente, figura che potetti ammirare tanto nel suo specifico ruolo professionale, quella di un Dirigente disponibile nei confronti di docenti e studenti, la porta del cui ufficio, come egli stesso amava sottolineare, non era mai chiusa per nessuno, quanto nello spirito di servizio che anche in lui potetti immediatamente riconoscere, quello di un uomo che, nonostante il gravoso incarico professionale, riusciva a trovare tempo ed energie da dedicare al benessere comune, attraverso attività di carattere politico, culturale, associativo.
Quando un giorno di novembre 2004 la cara Marcella mi telefonò per informarmi del fatto che gli amici del Rotary mi invitavano a far parte del Club, confesso di aver accettato immediatamente non perché conoscessi il Rotary e la sua filosofia (che, ad onor del vero, non conoscevo ancora), ma per il semplice fatto che l’invito provenisse da Marcella e, attraverso lei, da tanti altri cari amici che facevano parte dell’Associazione: la mia è stata, dunque, un’adesione dettata principalmente dall’Amicizia, e dal desiderio di condividere, con persone a me care, un percorso che, per il semplice fatto che tali amici vi fossero coinvolti, non poteva che essere di elevato spessore. Solo successivamente, frequentando il Club, seguendo i seminari di formazione, ma soprattutto osservando i miei amici soci, ho capito quale fosse la ragion d’essere del Rotary, quale il compito che esso ha scelto di avere nella società, e me ne sono appassionato.
Il Rotary mi ha permesso di re-incontrare amici che avevo perso di vista, o di rinsaldare legami che hanno trovato un loro significativo fondamento proprio in questi anni: parlo, ad esempio, di Beppe Di Liddo, che è stato mio docente di Informatica durante gli anni del Liceo, e che ho ritrovato qui, con una grinta ed un attivismo che allora, giovane studente liceale, non avevo gli strumenti per comprendere nella giusta misura; parlo del carissimo Giuliano Porcelli, mio immediato predecessore nella lusinghiera carica che stasera sto ufficialmente assumendo su vostra investitura, un ragazzo con il quale ho condiviso per lunghi anni l’abitare nello stesso condominio, ma che solo oggi, dopo dieci anni di esperienza rotariana, posso dire di conoscere veramente, avendo avuto modo di apprezzarne le doti straordinarie (e l’aggettivo, credetemi, non è affatto usato in senso retorico) di umanità, disponibilità e attivismo.
E tante sono, poi, le persone che ho avuto la possibilità di conoscere all’interno di questo club Rotary, uomini e donne che o non conoscevo affatto, oppure che conoscevo solo marginalmente, in virtù delle attività professionali da loro svolte in modo egregio per comune riconoscimento, ma di cui non avevo ancora avuto la possibilità di conoscere le doti umane, di nessuna delle quali farò i nomi perché dovrei fare i nomi di tutti.
Certo, “bene comune”; certo, “mettersi al servizio della società”. Sono tutte parole ed espressioni bellissime; chi di noi affermerebbe mai che questi non siano degli obiettivi sani e giusti? Ma sappiamo realmente di cosa stiamo parlando? Sappiamo in cosa oggettivamente consista il “bene comune” da costruire nella società? Non c’è il rischio che queste espressioni rimangano nel limbo di generiche affermazioni di buoni principi, egregie ed encomiabili sicuramente, ma pur sempre generiche? Sono queste le domande che ho posto a me stesso quando ho meditato circa il concreto piano programmatico di azione da realizzare, consapevole della necessità da un lato di agire in vista di obiettivi utili, concreti e fattivi, dall’altro di rispettare gli standard di qualità raggiunti da tutti gli ottimi Presidenti che mi hanno preceduto nella carica. La risposta a queste domande l’ho trovata partecipando al Seminario di Istruzione per i Nuovi Soci, tenutosi lo scorso 22 marzo presso Tenuta Donna Lavinia, e in particolare ascoltando la relazione di Giuseppe Viale, Governatore Emerito del distretto 2030, attuale membro del Board of Directors del Rotary International per il biennio 2014/16, nonché uno dei più importanti studiosi, a livello internazionale, di Storia del Rotary. Tutti noi sappiamo che il Rotary viene fondato da Paul Harris e dai suoi amici nel 1905 a Chicago; tutti sappiamo che il primo service realizzato è consistito in una serie di pubblici servizi igienici offerti alla comunità locale. Ma perché la forza di questo Club è stata così dirompente? In che modo esso ha rotto l’equilibrio (o lo squilibrio) preesistente? E, dunque, qual era il contesto nel quale nasceva, nel 1905, il Rotary Club a Chicago?
La Chicago degli ultimi anni dell’800, lungi dall’essere il sobborgo che era stato fino a pochi decenni prima, era ormai una città con centinaia di migliaia di abitanti: una città caotica, in cui cresceva il disordine sociale, in cui si poteva essere soli pur vivendo in un “popoloso deserto”, secondo l’ossimoro che usa Violetta Valery parlando di se stessa in un celeberrimo passo della “Traviata” verdiana. In particolare, come sappiamo, il senso di solitudine si accentua, in chi vive questa infelicità, nel corso delle giornate festive, e rischia di diventare insopportabile nel contesto di una metropoli in cui viene più facilmente a mancare quel sentimento di solidarietà, di umana condivisione, di vicinanza, che può caratterizzare i centri più piccoli. Qual era, allora, il luogo nel quale l’uomo solo poteva incontrare altre umanità, che gli potessero consentire la creazione, se non di vere relazioni di amicizia, quantomeno di rapporti interpersonali più o meno occasionali? Il saloon, luogo che Viale definisce “club dei poveri”, in cui dominavano incontrastati l’alcool e il gioco d’azzardo, e in cui era possibile avere un’illusione di felicità attraverso il sesso a pagamento. E’ inutile sottolineare che le condizioni igieniche della città, quanto mai precarie, aggravate dall’attraversamento di un fiume (il fiume Chicago, per l’appunto), che trasportava tutti i rifiuti di questa comunità disordinata e in troppo rapida espansione, erano tali da provocare il veloce diffondersi di epidemie. E’ vero che la città ebbe uno scatto di orgoglio, che, per esempio, il corso del fiume fu deviato onde evitare la contaminazione della popolazione, e che Chicago ospitò la prestigiosa Esposizione Colombiana del 1893, organizzata per celebrare i 400 anni dalla scoperta dell’America e che ebbe un'importanza decisiva per la cultura urbanistica e architettonica sviluppantesi in quegli anni nel panorama statunitense e, in generale, nel pensiero economico e sociale dell’epoca; ma è anche vero che immediatamente dopo la città fu colpita pesantemente dalla crisi economica che investì gli Stati Uniti nell’ultimo decennio dell’800, con conseguenze devastanti sotto tutti i punti di vista: la miseria provocava fame, la fame spingeva alla delinquenza, e si era giunti al punto che l’essere arrestati e il trascorrere del tempo in prigione veniva considerato una fortuna poiché quantomeno, in tal modo, venivano ad essere garantiti un tetto e del cibo. E’ in quel momento che Paul Harris, come egli stesso ha modo di scrivere nel 1935 nell’opera “This Rotarian Age”, si chiede: “Può venire fuori qualcosa di buono da Chicago”? C’è una parte della società che non si rassegna al degrado, al disordine, al caos, e che vuole rimboccarsi le maniche, consapevole del fatto che, se non potrà da sola risolvere i complessi problemi di una società, potrà tuttavia cominciare a porre dei mattoni in vista di una ri-costruzione, di un riscatto, che richiederà inevitabilmente il contributo di più forze coalizzate in vista di un medesimo obiettivo. Tra le prime concrete azioni del Rotary, dunque, non ci fu soltanto l’installazione dei bagni pubblici, i quali, in virtù di quanto abbiamo appena detto, acquisiscono un significato sociale che va ben al di là di quanto si potrebbe pensare senza il possesso degli indispensabili riferimenti contestuali, ma anche l’organizzazione di un convegno che riunì le autorità politiche amministrative e le organizzazioni commerciali e bancarie della città, e che fu finalizzato all’impostazione di un complesso di reti che conducessero alla trasformazione della vita urbana, nell’ottica di una collaborazione con le forze del territorio considerata elemento assolutamente imprescindibile in vista di un’azione comune.
Nell’assumere la Presidenza del Rotary Club di Bisceglie, e dopo aver lungamente riflettuto circa le origini del Rotary International così come sono state or ora esposte, l’onestà intellettuale che mi sforzo di perseguire mi conduce a pormi la seguente domanda: se nelle condizioni in cui versava la Chicago del 1905 aveva senso la nascita del sodalizio, ha ancora il medesimo senso il Rotary oggi, nel contesto radicalmente differente all’interno del quale il destino ci ha chiamati a vivere? Un’osservazione superficiale della realtà circostante porta immediatamente alla luce le abissali differenze rispetto al contesto di inizi ‘900: la nostra, al di là delle differenze individuali, è una società del benessere, in cui l’istruzione, gratuita e obbligatoria, è garantita a tutti, in cui il “welfare state” offre a tutti la possibilità di curarsi e le condizioni igieniche permettono a tutti di vivere secondo le regole della decenza. E, tuttavia, sarebbe forse il caso di entrare un po’ più a fondo nella questione, di allontanarci dalla superficie e di porci con coraggio la seguente domanda: nonostante tutti gli aspetti positivi che la riguardano, possiamo realmente considerare la nostra una società “migliore”? Difficile fornire una risposta netta, ma proviamo a riflettere, limitandoci a quello che è il nostro contesto, quello italiano: nonostante l’istruzione di massa, possiamo realmente pensare che il nostro sia un popolo colto? Il tasso di “analfabetismo di ritorno”, ossia la percentuale di popolazione che non è in grado di comprendere un testo di media difficoltà, risulta essere uno dei più elevati a livello europeo (ricerche internazionali parlano, addirittura, di un 80% della popolazione italiana che, se sa leggere e scrivere, lo fa con difficoltà e solo per brevi elaborati, che ha difficoltà nell’analisi di un grafico o che, addirittura, non sa fare niente di tutto ciò), così come decisamente bassa risulta essere la percentuale di coloro che leggono almeno un libro all’anno (46% in Italia, contro il 61% della Spagna, il 70% della Francia e l’82% della Germania); e questo nonostante gli sforzi compiuti dagli operatori del settore scolastico che si trovano a lavorare in un ambito purtroppo fortemente penalizzato da ben precise, e decisamente infelici, scelte di politica economica riguardanti il settore dell’istruzione e della ricerca; le condizioni igieniche, che più o meno in ognuna delle nostre case sono fortunatamente ben al di là dei limiti minimi della decenza, subiscono un pesante peggioramento quando si parli delle pubbliche strade, e questo non perché il servizio di igiene pubblica non sia adeguato, ma per la mancanza di rispetto dei singoli cittadini nei confronti del bene pubblico, considerato generalmente non bene “di tutti”, e dunque anche proprio, bensì bene “di nessuno”; la stessa mancanza di un comune senso di appartenenza alla collettività fa sì che, nel corso dei decenni, si sia sviluppata la piaga della corruzione, la quale non va individuata solo nelle “punte di iceberg” dei poteri forti che, periodicamente, trovano ampio spazio presso i più comuni canali di informazione, ma che è dilagante con ogni evidenza fin nella base della scala sociale, se è vero che il comune cittadino, quello di cui mai nessun notiziario si occuperà, va spesso alla ricerca del “favore” attraverso il quale aggirare le norme o sopperire alla mancanza di merito in un sistema nel quale la meritocrazia è, come è risaputo, fortemente minacciata, se non addirittura schiacciata, da chi non si fa scrupolo di penalizzare il contesto in nome del beneficio personale. La nostra è una società nella quale troppo spesso l’individuo ritiene che il “bene individuale” debba sopravanzare il “bene comune”, con un atteggiamento miope che non lascia comprendere come il “bene comune” inglobi e comprenda in sé inevitabilmente il “bene individuale”, laddove il secondo, senza il primo, rischia di trasformarsi in un boomerang capace di travolgere anche se stessi. Alla luce di quanto detto, chiediamoci onestamente: è così diverso questo nostro contesto da quello della Chicago del primo Novecento? Apparentemente sì, considerate le differenze oggettive che sono sotto gli occhi di tutti; ma decisamente no quando si consideri che, nonostante le apparenze, anche questo nostro mondo è nel caos, certo in un caos più sottile, forse più subdolo, e più difficilmente osservabile nella sua fenomenologia sotterranea, ma certo non meno rovinoso quando si osservino le devastazioni prodotte, alcune delle quali assumono, invero, un carattere di estrema evidenza.
E allora, tornando alla domanda iniziale, continuiamo a chiederci: ha ancora senso il Rotary in questa società? La risposta è sì: sì se ci sentiamo persone che, come Paul Harris, decidono di insorgere contro il disordine dilagante; sì se realmente ci rimbocchiamo le maniche e agiamo, ciascuno sulla base delle proprie energie umane, per contribuire almeno un po’ a migliorare il contesto; sì se saremo capaci di coalizzarci con tutte le altre forze positive presenti nella società (e ce ne sono tante), rifiutando con decisione un isolazionismo che non può mai condurre nessuno a nessun tipo di risultato; sì se, come sostiene il Governatore Luigi Palombella attraverso il suo motto, saremo capaci di essere “costruttori del bene comune”, ossia sostenitori della priorità del bene comune, vale a dire del bene di tutti, nessuno escluso, rispetto al bene individuale per ottenere il quale spesso si fa ricorso ad azioni illecite e a vere e proprie sopraffazioni ai danni dei più deboli e dei più indifesi. Ed ecco, dunque, perché quel famoso pomeriggio del giugno 1996 mi ha aperto delle strade di straordinaria ampiezza: perché mi ha permesso di conoscere o di rinsaldare i rapporti con persone, tra quelle che ho citato e quelle che non ho citato, le quali sono armate di buona volontà, che senza alcuna forma di esitazione si buttano nelle imprese, che credono fermamente in quello che fanno e lo fanno insieme agli altri, senza mai pensare né a primogeniture, né a primazie. Tra gli amici e le amiche che ho citato, diversi non sono rotariani; questo implica due aspetti: il primo è che non è certo solo all’interno del nostro sodalizio che si trovano persone le quali hanno a cuore le sorti della società, e questo rappresenta per noi un ulteriore stimolo a incontrare queste anime, cercando magari di coinvolgerle nella nostra realtà; il secondo consiste nell’importanza, per noi ma direi per tutti, di fare rete, di intrecciare relazioni amicali con tutti gli uomini e le donne di buona volontà che ci circondano, spesso membri di associazioni amiche con le quali i buoni rapporti già esistenti devono divenire sempre più saldi. Quest’ultima considerazione mi porta a un’ulteriore riflessione, che diventa anche una calda esortazione rivolta a tutti gli amici del mio Club: la mia esperienza professionale, che si sta esplicando, oltre che nel lavoro con gli studenti, anche nella gestione di aree di particolare delicatezza nella vita dell’Istituto nel quale mi onoro di lavorare, e che mi ha visto operare in team con una squadra di colleghi di elevato spessore, mi sta insegnando che nessun leader, a nessun livello, può lavorare bene se non è sostenuto da figure che lo supportino e lo coadiuvino, e se non si crea, anche in questo caso, una buona rete di energie; per questo vi dico che nessun Presidente, neanche il migliore dei Presidenti possibili (e, certamente, non è il mio caso), potrebbe essere efficiente senza i rotariani del suo Club. Sono qui, dunque, a chiedere a tutti i Soci la presenza costante sia alle riunioni settimanali che agli eventi di carattere distrettuale, poiché la frequenza è il primo e indispensabile requisito per fare squadra; diversamente, verrebbe a mancare il primo dei requisiti indispensabili per compiere qualunque tipo di azione, ossia l’amicizia. Tale esortazione diviene particolarmente cogente nei confronti di tutti i membri del Consiglio Direttivo, stante l’abitudine, invalsa nel nostro Club, di prendere democraticamente ogni tipo di decisione nel corso delle riunioni settimanali, ed essendo, pertanto, il Consiglio Direttivo, più che un organismo decisionale, uno zoccolo duro, un nucleo centrale di azione che, in quanto tale, non può e non dovrebbe mai far mancare il proprio sostegno al Presidente in carica. Chiedo analogo sostegno anche ai ragazzi del Rotaract, con i quali fin dall’inizio abbiamo tessuto una fitta trama di relazioni che ci ha permesso di realizzare attività di particolare rilievo nell’ottica del più collaborativo spirito di solidarietà intergenerazionale; e al tempo stesso mi rivolgo anche ai ragazzi dell’Interact, club che per evidenti ragioni di carattere anagrafico necessita oggi di una ricostruzione, essendo ormai giunti numerosi soci al traguardo dei 18 anni, per realizzare la quale chiedo ancora il prezioso supporto del Rotaract, indispensabile anello di congiunzione nella grande catena che lega queste tre nostre realtà le quali, lungi dall’essere delle monadi, rappresentano invece l’emblema della sinergia che caratterizza questa nostra famiglia rotariana.
Nel ringraziarvi, dunque, preventivamente del supporto che, so già, non mi farete mai mancare, consentitemi, prima di chiudere, di esprimere qui pubblicamente il mio più affettuoso ringraziamento alle due persone che, nel corso degli anni, hanno inculcato in me quei valori che fanno di una persona, oltre che un buon rotariano, un uomo che sia degno di questo nome: i miei Genitori; mio padre, per lo spirito di abnegazione con cui ha dedicato l’intera sua vita al lavoro e alla famiglia, e per la libertà che ha concesso, a me e ai miei fratelli, di scegliere le nostre strade sulla base delle nostre naturali propensioni e delle nostre volontà; mia madre, per l’amore nei confronti della cultura che ha ispirato a me e ai miei fratelli fin dalla più tenera età, tanto da insegnarmi a leggere, usando metodologie modernissime da lei mai studiate, ma apprese sul campo da autodidatta, quando avevo soli 3 anni, ad un’età, cioè, così precoce che nella mia memoria non serbo alcun ricordo della brevissima fase della mia vita in cui non sapessi leggere; entrambi, per l’amore straordinario che hanno donato e continuano a donare a noi figli, tale da creare un ambiente sano e sereno all’interno del quale è stato bello crescere ed è stato facile divenire uomini dotati di ben precisi valori morali.
“Light up Rotary” è il motto scelto dal Presidente Internazionale, Gary Huang, per questo anno rotariano appena cominciato, ossia “Accendi la luce del Rotary”. Io non so se ciascuno di noi possa, nel proprio piccolo, considerarsi una luce per gli altri; forse singolarmente non lo siamo, o forse non siamo abbastanza consapevoli del fatto di poterlo diventare. Probabilmente, quand’anche fossimo luce, da soli saremmo delle luci troppo esigue per poter illuminare un cammino: uniamoci, dunque, tutti, rotariani e non, mettiamo insieme le nostre piccole luci e creiamo un’unica grande luce, che possa illuminare il nostro cammino, facendoci ben ponderare dove metteremo i nostri piedi, e che, al tempo stesso, possa contribuire ad illuminare chi vive momentaneamente nel buio, quel buio nel quale chiunque di noi potrebbe essersi trovato o potrebbe trovarsi in futuro, e dal quale si può uscire solo attraverso un’unica parola magica: Amicizia.
Buon anno a tutti.
Gianni
Bisceglie, 6 luglio 2014